Due parole (scientifiche) sull’amore
Parlare di amore è sempre molto difficile. Nello stesso tempo – da più parti – nell’area della psicoterapia si iniziano ad alzare voci originali su questo tema e sull’importanza che riveste nei processi di cura.
L’attenzione al ruolo di quelli che vengono definiti “affetti positivi” nasce negli Stati Uniti dopo gli anni ’90 del secolo scorso. Le neuroscienze affettive e le nuove metodiche di indagine del panorama cerebrale hanno dimostrato che gli affetti positivi hanno un ruolo importante nei processi di sviluppo e apprendimento e, per estensione, nei processi di cura.
Molto prima che avessimo la prova che impariamo più facilmente dalla esperienze positive che dalle esperienze negative, alcune tradizioni meditative orientali avevano focalizzato l’attenzione sul ruolo centrale degli affetti positivi come “antidoti naturali” alla rabbia e alla paura e, più in generale, alle reazioni avversative.
Il ruolo degli affetti positivi nello sviluppo
Il ruolo degli affetti positivi nella crescita dei bambini è ben conosciuto grazie all’infant research e al lavoro di autori come Edward Tronick, Daniel Stern, e Allan Schore. Nel primo anno di vita – un anno in cui i bambini hanno una straordinaria crescita psicofisica – è totalmente dedicato agli affetti positivi.
Genitori e bambini hanno interazioni prevalentemente orientate all’amore, all’affetto o alla consolazione. E’ solo dopo la seconda metà del secondo anno che nella relazione genitori figli iniziano ad apparire più frequentemente anche emozioni legate alla disapprovazione, al rimprovero o emozioni dello spettro della rabbia.
L’ipotesi è che gli affetti positivi abbiano, appunto, un ruolo centrale nella crescita e nello sviluppo dei bambini. E, in effetti, le conseguenze negative di un clima emotivo precocemente attraversato da affetti negativi, sono oramai evidenti a tutti.
Nello stesso tempo questa materia è molto complessa da definire. Complesso dire quali sono gli ingredienti dell’amore e, ancora più complesso è definire quali sono le condizioni perché questa emozione emerge.
Love 2.0
Di affetti positivi la psicologia si è occupata a lungo, a partire dal lavoro di Seligman sull’ottimismo che risale al 1990 (ormai un secolo fa!). Recentemente, negli Stati Uniti, ha riscosso molto interesse il lavoro di Barbara Fredrickson che ha affrontato il tema dell’amore dal punto di vista della scienza delle emozioni. In questo approccio l’interesse nei confronti delle emozioni riguarda l’esplorazione degli aspetti sia corporei che mentali associati agli stati emotivi positivi.
Gli aspetti che contraddistinguono l’impatto delle emozioni positive è che sono emozioni che hanno un potenziale di apertura e trasformazione in se stesse.
Ma cosa significa positività?
Per positività, in questo caso, si intende quella condizione psicologica prodotta da una emozione e che si accompagna a molti effetti fisici correlati. Effetti fisici che vanno dal rallentamento del battito cardiaco, al rilassamento dei muscoli facciali, al rilassamento muscolare. Gli effetti di una positività così connotata non sono, inoltre, effetti solo legati al momento presente, visto che permettono apertura relazionale, crescita personale e trasformazione di elementi critici di reattività.
Le emozioni positive sono il “motore” di questo intricato sistema di risposte e sono ingredienti attivi della sua messa in moto.
Ma cos’è, in due parole, l’amore?
Sicuramente l’amore è una emozione e uno stato momentaneo che risuona nella risposta corporea e mentale. Come tutte le emozioni si accompagna ad un modello di sensazioni precise ed individualmente determinate che si collocano nel versante piacevole.
Per riassumere molto concisamente, per Barbara Fredrickson, l’amore è il frutto di tre elementi intrecciati tra di loro: il primo è la condivisione di una o più emozioni positive, la seconda è una sincronicità tra la propria esperienza e quella dell’altro e la terza è il reciproco interesse per il benessere del nostro interlocutore.
La risonanza positiva
L’intrecciarsi di questi tre elementi crea una risonanza positiva che spesso comporta una amplificazione dell’esperienza affettiva che espande i tre elementi sopra citati. Quindi più si verifica questa sincronicità di esperienze positive, più aumenta l’affetto positivo e la possibilità che si verifichi di nuovo.
Nello stesso tempo questa risonanza è qualcosa di più del processo di mirroring, o rispecchiamento. Non basta essere similmente presenti, fare quello che fa l’altro in restituzione. Non basta la reciprocità. E’ necessario che in ogni scambio ci sia una aggiunta personale, un aroma dell’altro che va a costruire il legame in maniera unica e specifica. Il rischio infatti dell’amore da rispecchiamento è quello di cadere in una relazione narcisistica in cui l’altro esiste solo nella misura in cui rispecchia i nostri bisogni, le nostre aspettative e la nostra stessa visione delle cose.
Questa risonanza – se è in grado di includere la novità che la presenza dell’altro comporta e la progressiva , successiva, simultanea presenza di un elemento estraneo – sviluppa un sentimento via via libero da gravami narcisistici.
Le condizioni di partenza
A questo punto potremmo chiederci qual è la scintilla che innesca il processo. Ci sono, infatti, alcune precondizioni che sono necessarie. La prima è una sensazione di sicurezza. Se siamo spaventati o abbiamo la sensazione di essere in pericolo, sarà molto difficile che si sviluppi un senso positivo di affetto. Questo può andare al di là della nostra consapevolezza conscia. Il nostro cervello è infatti abituato a sintonizzarsi con le fonti di pericolo e ad entrare in modalità difensiva, anche in modo non pienamente consapevole. Ovviamente la percezione della minaccia può non essere realistica ma ciononostante attiviamo questa modalità di re-azione. Persone che soffrono di disturbi ansiosi o depressivi, oppure con una bassa autostima, possono percepire l’ambiente in maniera più minacciosa ed attivare quindi maggiori modalità difensive.
La seconda precondizione è il contatto e la capacità di stare in contatto; un contatto reale e non virtuale. Questa precondizione esprime, in parte, la condizionalità dell’amore. Non riusciamo infatti, a stare in contatto indiscriminatamente. Abbiamo bisogno di percepire un elemento di attrazione, interesse e apertura, che è necessario, anche quando non sia un amore che prelude all’intimità fisica.
La base di questo contatto è corporea ed è data dalla disponibilità al contatto oculare, dalla prossemica, dall’espressività del viso. Il contatto oculare è il primo elemento della disponibilità a stabilire un contatto reale con il mondo dell’altro e non con una nostra visione ideale dell’interlocutore. Senza il contatto visivo, la sincronicità che possiamo sperimentare diventa un “gioco parallelo” che può essere anche molto piacevole ma non conduce sulla stessa spiaggia.
Il contatto visivo è quello che media il processo di sintonizzazione – l’attunement – e che lo rende percepito e reale. Permette la costruzione di un legame di attaccamento sufficientemente solido da superare le inevitabili intemperie di una relazione. Un legame d’attaccamento che, non è presente solo nella relazione bambino-genitori, ma che si verifica ogni volta che stabiliamo una relazione duratura, in cui iniziare a dire…”due parole (non scientifiche) sull’amore.
Riassumendo
Questi pochi elementi, che Barbara Fredrickson raccoglie con grande chiarezza, hanno il merito di essere sufficientemente precisi e sufficientemente ampi da descrivere sia le singole relazioni che il contesto più ampio del formarsi di una relazione.
L’amore quindi richiede connessione, e, se è vero che possiamo pensare e desiderare chi amiamo anche in loro assenza, è vero che quel sentimento, per nascere e consolidarsi richiede presenza fisica. La presenza fisica, da sola non è sufficiente: è necessario, infatti, sperimentare quella condivisione che offre la presenza emotiva. Perché la connessione emotiva sia possibile, abbiamo, quasi inevitabilmente, bisogno di rallentare. Questa è – credo – una delle ragioni per cui i bambini sono, a volte così lenti nelle interazioni relazionali e così veloci in altre situazioni. Sono lenti quando assimilano l’amore. E ci costringono così a rallentare. Sono veloci quando, con un bel pieno di rifornimento affettivo, possono esprimere tutta la loro energia.
Questa caratteristica della lentezza è qualcosa da sperimentare anche nella vita quotidiana. Forse se rallentiamo quando ci sentiamo soli possiamo accorgerci che c’è molto più amore a disposizione di quello che pensiamo.
L’amore in terapia
Se guardiamo agli elementi sopra esposti è facile comprendere perché esiste un amore in terapia. Perché entrambi rallentiamo, per incontrarci e condividere un contatto emotivo e (almeno in bioenergetica) anche fisico. Il contatto visivo, la vicinanza che offre la realtà del lavoro corporeo, restituiscono quel contatto primitivo in cui siamo nati. Anzi, come dice Allen Ginsberg, ”
questo è quel
che volevo,
ho sempre voluto,
ho sempre voluto, tornare al corpo, dove sono nato.
© Nicoletta Cinotti 2016
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